“Dario, Pierluigi, davvero siete così intrisi delle vecchie posizioni da non capire che qualcuno vuole correre solo per le sue idee?”. Era il 16 ottobre di quattro anni fa, e negli studi di Youdem si svolgeva il confronto televisivo tra i candidati all’ultimo congresso Pd prima di quello attuale. Da allora è cambiato parecchio: la tv del partito non trasmette più su satellite (per i tagli al finanziamento pubblico) e ha cambiato direttore, Bersani ha vinto due primarie (2009 e 2012) ma pareggiato le elezioni, Marino ne ha vinta una (2013, per Roma) e poi è stato eletto sindaco, Franceschini è diventato prima capogruppo alla Camera e quindi ministro, il Pd ha avuto un segretario e poi un reggente, la presidente si è dimessa, diversi esponenti (Rutelli in testa) hanno cambiato partito, il tesoriere della Margherita è finito in carcere, il neosindaco di Firenze si è imposto nel panorama nazionale, il gruppo parlamentare è stato rivoluzionato per due terzi dalle primariette di dicembre e dagli aggiustamenti del listino bloccato.
Da quel congresso del 2009 sono caduti due governi (Berlusconi, Monti), uno non è mai nato (quello di Bersani), e il Pd (che all’epoca reagiva con sdegno all’ipotesi di un accordo con Berlusconi, perché “non c’è spazio per il dialogo con chi calpesta continuamente le regole e attacca sempre le istituzioni”) ha partecipato due volte alle larghe intese: una volta entrandoci dalla finestra dell’opposizione, un’altra dalla porta principale di chi ha più il candidato premier e il pacchetto di maggioranza relativa nelle due Camere. Non è cambiato il presidente della Repubblica, nonostante la fine del settennato, e nemmeno la legge elettorale, nonostante le promesse dell’epoca (“Non è possibile che un italiano scelga il segretario del PD e non il proprio parlamentare”), i comitati ristretti, i saggi e gli scioperi della fame.
Sono cambiati gli iscritti, che si sono ridimensionati parecchio: nel 2009 votarono 466 mila su 827 mila aventi diritto, ora hanno votato meno di 300 mila su un numero di tessere a tutt’oggi imprecisato. E questo calo è destinato a riflettersi anche nella partecipazione al voto dell’8 dicembre, che difficilmente raggiungerà i 3 milioni e 102 mila del 25 ottobre di quattro anni fa. Quello che non si abbassa mai, invece, è il tasso di conflittualità interna: quella frase di Marino contro Franceschini e Bersani, attaccati perché già dirigenti di spicco di Margherita e Ds, nel confronto del 2009 sembrò molto polemica e oggi passerebbe inosservata, visti gli attacchi in crescendo di questi giorni tra i vari candidati.
Come accade spesso in casi del genere, quando c’è una competizione a tre, i due più forti cercano di polarizzare il confronto, tagliando fuori il terzo: se Civati, che deve rimontare, li chiama in ballo entrambi, Renzi e Cuperlo concentrano la propria comunicazione politica l’uno sull’altro, o – meglio ancora – su quell’immagine caricaturale dell’altro che può colpire di più l’opinione pubblica e i possibili votanti ai gazebo. E così, anziché tra candidati, sta venendo fuori un confronto tra fantasmi: quello di D’Alema (che pure non si tira indietro, tra programmi tv e candidature in Puglia), considerato dai renziani il Mangiafuoco di Cuperlo, e quello di Berlusconi, del quale Renzi – parola di Cuperlo stesso – costituirebbe una sorta di continuità.
Può sembrare semplice dialettica congressuale, e invece non lo è: la presenza dei fantasmi costituisce infatti un problema enorme nel castello del Pd, forse addirittura il suo limite più grande in questi 7 anni di vita. Quel progetto politico che doveva fondere tradizioni diverse e metterle insieme, mutuandone il meglio e rompendo alcuni schemi classici della sinistra, è ancora lì a interrogarsi quale sia l’eredità meno peggiore da raccogliere, nella storia degli ultimi vent’anni. È ancora lì, con la testa al passato, come se non ci fossero un presente e soprattutto un futuro.
Nov
25
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